Emigranti di Palermo

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Palermo è la città di Sicilia che fece una più meravigliosa cresciuta dopo il 1860. I siciliani hanno ragione d’andarne alteri. E’ una grande città. Ma i nuovi quartieri eleganti, le nuove vaste piazze alberate, i nuovi magnifici passeggi pubblici, veri luoghi di delizie, degni di Parigi e di Londra, non hanno mutato la sua antica fisionomia originalissima che è sempre costituita dalle due interminabili vie dritte – Maqueda e Vittorio Emanuele – che s’incrociano nel suo centro; e la sua bellezza più caratteristica è sempre quel centro, quella piazzetta ottagonale dei Quattro Cantoni, che hanno quattro architetture uguali d’ordine dorico, ionico e composito, coperte d’arabeschi e di fregi, ornate di fontane e di statue; piazza, mercato, foro, cuore di Palermo. A giudicare dal movimento di quelle due strade, di cui una sbocca sul mare, l’altra è in direzione parallela alla riva, si direbbe che Palermo è una città di due milioni d’abitanti. Corrono in ciascuna, da un capo all’altra e dalla mattina alla sera, due torrenti di gente, di carrozze, di carri, di carrette, che continuamente serpeggiano per non urtarsi, che in mille punti s’intrecciano e si confondono, s’arrestano, s’addensano, ondeggiano; è un formicolio che vi confonde la vista, uno strepito che v’introna la testa, una varietà di veicoli, di carichi, d’aspetti umani, di gesti e di voci, un contrasto di allegrezza e di furia, di fatica e di spasso, di lusso e di povertà, quale in nessun’altra città del mondo credo si possa vedere. Ma è tutta uno spettacolo di violenti contrasti questa stupenda e strana cittàdei vespri e di Santa Rosalia. Alzando gli occhi di mezzo alla vegetazione magnifica che vi circonda nei giardini e nei parchi cittadini, dove s’incrociano i viali fiancheggiati di leandri e di rose, e s’affollano le palme, i platani, gli eucalipti, le più preziose specie di tutte le flore, vrdete un anfiteatro di montagne rocciose e nude, di aspetto terribile, che par che guardino biecamente e minaccino tutta quella pompa ridente della natura. Dal grande viale marino del Foro Italico, un vero passeggio da sovrani, dove corrono centinaia di carrozze aristocratiche, si riesce, in pochi passi lungo la vecchia Cala, dove una selva di brigantini, di paranze, di barcacce d’ogni antica forma, siciliane, napolitane, pugliesi greche, vi rappresentano tutte le miserie e le calamità della più avventurosa e dura vita marinaresca dei passati secoli. Uscite da quell’enorme labirinto di viuzze oscure e sudicie, che si chiama l’Albergheria, dove brulica una popolazione poverissima in migliaia di fetidi covi, che sono ancora quei medesimi in cui si pigiavano gli arabi di nove secoli or sono, e vi trovate dinanzi a un Teatro Massimo, il più grande e più splendido teatro d’Italia, che costò otto milioni, e di cui fu decretata la costruzione quando Palermo non aveva ancora un ospedale che rispondesse ai suoi più stretti bisogni. V’è prodigalità e magnificenza in tutto ciò che colpisce gli occhi e può dar l’immagine d’una città prospera e potente; ma all’apparenza non corrisponde la realtà. Il popolo è povero e vive con una frugalità anacoretica; una vera borghesia industriale non esiste; l’aristocrazia ricca è assai scarsa. Un’apparenza di splendore dà alla città la passione del lusso, che è universale, e il fatto che Palermo attira con la sua bellezza e con la forza centripeta delle sue tradizioni i siciliani danarosi d’ogni parte dell’isola. Anche le dà vita nella stagione invernale una numerosissima colonia straniera, specialmente inglese. Ed è a notarsi pure un vivo amore di tutte le classi per la vita esteriore, per le passeggiate, per le feste, per i ritrovi pubblici d’ogni genere; il che agli occhi del forestiero fa apparir la popolazione duplicata. Ho parlato di contrasti. Un contrasto che compendia e spiega tutti gli altri è quello che vi si presenta qualche volta nel corso Vittorio Emanuele, quando d’in fra i palazzi e le statue e il via vai festoso delle carrozze infiorate, vedete lontano, all’orizzonte del mare che chiude la via, la macchietta nera d’uno dei piroscafi che portano via ogni settimana un popolo d’emigranti. Poichè in quella regione dell’isola principalmente l’emigrazione per gli Stati Uniti ha assunto in questi anni proporzioni spaventevoli; in quella regione dove l’attaccamento degli abitanti al luogo natìo pareva una volta così tenace da rendere impossibile un’emigrazione importante. Ci son dei piccoli paesi che si vuotano quasi interamente; ci sono città ragguardevoli che hanno perduto quasi un terzo della loro popolazione. E s’ha un bel dire che non la miseria assoluta, ma i cresciuti bisogni e il desiderio di un benessere prima non conosciuto né sognato son la vera cagione dell’esodo lamentevole; resta pur sempre che è triste e mise la condizione d’un paese in cui le classi lavoratrici non possono soddisfare i bisogni e le aspirazioni legittime che suscitano in esse la civiltà progredita e la divulgata cultura. Verità che paion sogni quando si passa tra i ricordi di quel tempo in cui il celebre sceriffo arabo Edrisi chiamava Palermo “il massimo e splendido soggiorno, la più vasta ed eccelsa metropoli del mondo” ed era veramente la più importante città dell’occidente, il maggior centro politico del Mediterraneo, come nel mondo ellenico era stata Siracusa. Ma ben altri ricordi m’incalzavano per le vie di Palermo.. E’ la città dei Vespri, ma è anche la città di Garibaldi. Chi può passare per tutta quella rete di vie tortuose che si stendono fra porta Termini e il centro senza rivedere la terribile gloriosa fiumana delle camicie rosse che vi irruppero la mattina del 27 maggio del 1860, inebriate della propria temerità e della prodigiosa vittoria? E fu davvero un prodigio che ingrandisce ancora nel nostro concetto alla vista dei luoghi dove fu compiuto. Ottocento garibaldini, seguiti da tre o quattromila ragazzi siciliani male armati o quasi disarmati, vincono un presidio di più di ventimila soldati, munito di artiglierie potenti, sostenuto dal fuoco di quattro fregate, protetto da caserme e da fortezze formidabili, padrone ancora di quattro quinti della periferia della città quando la rivoluzione vi è già penetrata. Che eroica epopea quella battaglia di nove giorni intorno alle porte e sulle barricate, fra i palazzi e i monasteri in fiamme, , nel bagliore degl’incendi di interi quartieri, , saccheggiati e insanguinati dal furore di vendetta d’una soldatesca feroce, sotto il fulminìo delle bombe e delle granate dei forti di castellammare che colmano le vie di rovine e di cadaveri! A ogni passo vi sorge dinanzi l’immagine luminosa dell’Eroe. Ecco la piccola casa di Fieravecchia dov’egli passò la prima notte dopo l’entrata in Palermo nella tragica ansietà del domani, che poteva essere il fallimento disperato della sua impresa e un eccidio orrendo di tutti i suoi. Ecco il palazzo Pretorio di dove egli annunziò al popolo fremente d’aver respinto le “ignominiose” proposte d’armistizio dei generali borbonici” e deciso di continuar la lotta fino all’ultimo estremo. E’ là, nel Foro italico, è il luogo dove, due anni dopo, passata in rivista la guardia nazionale, egli fece impallidire tutte le autorità regie e cittadine che lo circondavano, lanciando all’improvviso il primo grido della spedizione di Roma, tradotto poi nella formola memoranda di “Roma o morte!” E’ più oltre, sulla marina, è quella storica casa di Ugo delle Favare, dov’egli fu ospitato nel 1882, l’ultima volta che tornò alla sua Palermo, già segnato in viso dalla mano della morte, ricevuto da una folla immensa, solennemente silenziosa, che comprimeva con uno sforzo sublime di volontà la propria commozione per “non recargli molestia” e pareva un popolo di larve addolorate intorno a un Dio moribondo!” O grande anima di Garibaldi, come sei ancora vivo e raggiante a Palermo! Viva nel cuore del popolo sopra tutto. Per il popolo palermitano Garibaldi è ancora il mito divino e caro di quei primi anni, il discendente di Santa Rosalia, al quale la santa stessa aveva dato quello scudiscio miracoloso, ch’egli teneva sempre in mano, e con cui rimoveva da sé le palle dei fucili e dei cannoni borbonici. Buon popolo veramente, che può avere molti difetti, ma che possiede in grado eminente la virtù gentile della gratitudine. Non perdona facilmente le ingiurie, perché ha un fiero sentimento di sé, e facilmente le vendica col sangue, perché è pronto all’ira, e l’ira fulminea lo accieca, ma non dimentica i benefizi, e chi gli mostra stima ed affetto ricambia d’affetto vivo e durevole. Ne danno esempio i soldati palermitani (e tutti i siciliani in genere), dei quali fanno quello che vogliono gli ufficiali che li trattano con affabilità e rispetto. Strano è che gli si attribuiscono universalmente dei difetti che sono per l’appunto l’opposto di certe sue qualità caratteristiche; cioè, di essere troppo verbosamente e chiassosamente espansivo, mentre è piuttosto chiuso e taciturno; di essere poco tenero della famiglia, mentre alle creature del suo sangue è affezionatissimo; di essere tenace ed implacabile negli odii, mentre è caso raro che compia una vendetta a sangue freddo, anche più raro che la compia a tradimento. Certo, è geloso, ma perché ama con ardore veemente; è astuto, ma perché fu oppresso per secoli fu tenuto in un ignoranza barbarica. Di qual sentimento della poesia sia citata questa razza lo dimostrano i suoi canti e le sue tradizioni popolari, a detto il Renan. E di che profondo e delicato amor proprio (capace, se ben governato, di dar ottimi frutti) essa sia compresa,si può argomentare dal grande caso che fanno i siciliani, e i palermitani in ispecie, dei giudizi degli stranieri, o, anche più, di quelli dei loro fratelli continentali; dal rammarico che manifestano per i giudizi sfavorevoli, dalla grande soddisfazione che lasciano trasparire per i giudizi che li onorano. Questa preoccupazione d’esser mal giudicati dai loro connazionali io trovai in loro comunissima, e mi commosse, e mi rattristò anche un poco, come un segno di diffidenza dei nostri sentimenti fraterni. Ma non si può notare che sia una preoccupazione giustificata da molte ingiustizie. Quanto è consolante il non avere alcuna di queste ingiustizie da rimproverare a noi stessi quando il nostro cuore palpita sotto la carezza amorevole della ospitalità siciliana, quando ci sentiamo premere intorno, per le vie di quelle grandi città, quella gran folla piena di vita e di forza. e di ricordi gloriosi, nella quale è riposta tanta parte delle speranze della patria, alla quale ci legano tante sacre memorie dei primi anni benedetti della nostra nuova vita!