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Di quella che era la Casa Lavoro e Preghiera degli Orfani e Abbandonati rimane oggi ben poco. Negli anni, seguiti alla morte di Padre Messina, le suore, per fronteggiare le ingenti spese che il mantenimento di questo grande edificio comportava, furono costrette a vendere corredi, manufatti, mobili e suppellettili varie, testimonianze della cultura materiale del più importante orfanatrofio palermitano. L’istituto disponeva di telai, macchine da cucire, macchine da tessitura, da filatura, tra quelle che più erano all’avanguardia tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Le giovani, prossime all’età del matrimonio, apprendevano l’arte del ricamo (all’uncinetto, al tombolo, del chiacchierino, dello “sfilato” siciliano) utilizzata per la decorazione di corredi, e dei macramé che adornavano le frange degli asciugamani in lino. Ma il laboratorio messo in piedi, con tanti sacrifici, da Padre Giovanni Messina, fondatore della Casa, produceva soprattutto per commissione: le nobildonne palermitane ordinavano alle giovani lavoratrici pregiati manufatti e il ricavato della vendita veniva utilizzato dal Padre per “mandare avanti la baracca”.
Degli utensili largamente adoperati, di cui disponeva la cucina: pentole di grande portata, mestoloni, giare da olio, grandi cesti in canna e vimini, vasellame appositamente prodotto in larga scala per sfamare quotidianamente centinaia di bambini ospitati, è rimasto davvero poco. I piatti erano di stagno, un materiale molto economico, facilmente alterabili con l’utilizzo. In mostra qualche esemplare deformato. Restano le fotografie, dove è possibile osservare anche la frugalità del cibo che in tempi duri come quelli bellici spesso veniva offerto, ed erano brodaglie o “babbaluci”. Scomparse anche le ampie “pile” (lavatoi) e tavole da bucato, di cui non resta che quache piccolo esemplare. Poi bugie, qualche lampada a gas e a olio allora comunemente usate per l’illuminazione notturna.
La Casa disponeva di una dotatissima infermeria, qui, in esposizione: bacinelle, bisturi, pinze, strumenti per la misurazione della pressione, un recipiente cilindrico per la sterilizzazione, il pentolino per la bollitura delle siringhe in vetro, prima dell’avvento delle “usa e getta”. Una chicca della mostra è la sputacchiera, l’esemplare esposto è di foggia circolare. L’introduzione di quest’oggetto fu considerato un progresso in termini di civiltà e di igiene a partire dalla prima metà del XIX secolo: il ricorso a tale recipiente serviva difatti a combattere l’abitudine di sputare su pavimenti, strade e marciapiedi. Per evitare la diffusione di malattie, le sputacchiere pubbliche furono ben presto riempite di soluzioni antisettiche, mentre soprattutto per i malati di tubercolosi vennero create sputacchiere tascabili. Parallelamente alla comparsa delle sputacchiere, in città vennero emanati specifici divieti di sputare se non in tali recipienti.
Le aree della scuola e del convitto destinato ai bambini erano arredate di tutto punto. Padre Messina fece costruire appositi banchetti biposto per lo studio, le camerate erano corredate di letti in ferro battuto, comodini, e innumerevoli lavabi per la pulizia personale quotidiana, ivi compresi i cosiddetti “rinali”, contenitori a forma di ciotola con un manico, che si conservavano sotto il letto oppure in un comodino e utilizzati come water per la notte. Qualche giocattolo rimasto, pochi gli strumenti musicali.
Rimangono vari esemplari di divise che si diversificavano a seconda delle età degli allievi, del sesso e delle circostanze in cui queste venivano indossate. Saltano all’occhio i “marinaretti” realizzati come uniforme per la banda diretta da Padre Messina. Alcune fotografie a riguardo testimoniano della bellezza di questo gruppetto musicale che partecipava a rassegne canore, animava le sfilate cittadine e non di rado vinceva prestigiosi premi esibendosi anche nei più grandi teatri di Palermo. In esposizione una “pesante” coppa-premio di foggia fascista, del 1938.
La recitazione, come si può osservare nella mostra fotografica L’Africa di Palermo. Padre Messina e la città tra Ottocento e Novecento, adiacente alla presente esposizione, era una vera e propria passione del “Padre” e delle sue collaboratrici. Veniva utilizzata come mezzo di espressione artistica ma anche come modalità per ottenere offerte dai benefattori, intenerendo i cuori degli spettatori. Dopo la morte del fondatore, venne realizzato un intero salone a mo di teatro con tanto di quinte, sipario e palcoscenico, per volontà del benefattore Mario De Ciccio, antiquario e collezionista d’arte, all’interno padiglione “De Ciccio” che appunto porta il suo nome. Sono qui esposti alcuni gagliardetti da scena, dipinti a mano e costumi da paggetti, che furono cuciti dalle suore in vista delle recite scolastiche di fine anno. Gli abiti venivano poi riposti e conservati in grandi armadi, tanto alti da dover contemplare grucce corredate da stampelle che avrebbero permesso di appenderli. Padre Messina si era anche inventato alcune originali usanze, di cui si trova traccia documentaria nelle fotografie esposte. Il giorno della Prima Comunione alcuni bambini venivano vestiti come angeli, dei quali avrebbero conquistato la purezza proprio in quel giorno speciale. In occasione del Giovedì Santo, poi, i più meritevoli dal punto di vista della disciplina e del comportamento, erano investiti della carica di “clavigero”: custode della chiave del Tabernacolo della Reposizione, atto pedagogico di ulteriore responsabilizzazione, secondo l’intento del fondatore della Casa.
Nella biblioteca delle suore tantissimi sono i libretti di preghiera del passato: breviari, massime eterne, volumetti della liturgia delle ore e molti oggetti di devozione mariana e verso i santi. Spiccano ancora le frasi, incorniciate in alcuni quadretti, che Padre Messina aveva fatto affiggere in tutto l’edificio: un monito al dovere e ai buoni comportamenti e un invito a bandire le cattive azioni.
Questa esposizione estemporanea, che può diventare il nucleo di una futura esposizione permanente, testimonia della vita ma anche della dura realtà dei piccoli ospiti di questo luogo e di come questi “picciriddi”, come amava chiamarli il Padre, venivano accolti con tutta la cura e la dedizione che quei tempi difficili permettevano, in cui davvero ci si doveva industriare quotidianamente e in prima persona per poter mettere qualcosa in pentola. Ecco che la conclusione ideale di questa mostra è proprio il “carretto” di Padre Messina, esposto nel salone della mostra fotografica. Un vecchio carretto siciliano molto modesto e recentemente restaurato, che gli era stato donato nel 1905 e che il Padre definito dai più “l’asino di Palermo” e, perché no, a volte un po’deriso, proprio per questo suo non sottrarsi alle mortificazioni e alle umiliazioni per il bene dei propri figli molto umilmente utilizzava per chiedere le elemosine, per raccogliere materiale di vario genere e beni di prima necessità, perché nulla andasse buttato: in questa logica di “riciclo”, sicuramente più moderno di molti suoi contemporanei