‘U maniscalcu

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Il maniscalco  è scomparso dalla città da un trentennio abbondante, non si ode più l’inconfondibile suono del ferro battuto. Ancora qualche decennio fa, negli antri creati abusivamente sotto le mura del Bastione dello Spasimo, si trovava traccia di qualcuno che ferrava i cavalli; i pochi equini che trovavano spazio in mezzo al traffico automobilistico cittadino. In Piazza Magione c’erano ancora gli ultimi che si guadagnavano il pane ferrando cavalli a caldo e a freddo, incastrando, inchiodando, rifacendo gli zoccoli ai cavalli con gli arnesi di sempre:cacciatoio, cavalletto, incastro, incudine, martello ed una foggia. Essere maniscalchi significava conoscere profondamente il mondo equino. Il maniscalco, infatti, non si limitava a ferrare i cavalli, ma, con la sua passione e la sua esperienza riusciva a diagnosticare la malattia o il difetto del malato. Con  una terapia quasi mai da farmacia, ma sicuramente vegetale, con erbe dettate da vecchie ricette tramandate in famiglia, il cavallo malato si metteva in piedi. Naturalmente questi importanti artigiani erano molto reticenti nello svelare i segreti essenziali per la propria arte. In tutte le epoche, l’esperienza e l’abilità artigianale hanno rappresentato un prezioso patrimonio personale che si doveva proteggere e tramandare, a tutti i costi, in famiglia. Questo è stato però il motivo principale per fare scomparire il mestiere del maniscalco e tanti altri mestieri. Tra gli altri “’u tusaturi” che tosava con tanta perizia i cavalli e “’u pasturaru” che intrecciando i peli tagliati dalla coda dei cavalli costruiva piccole corde che servivano per legare le mucche ribelli. Ormai tutto questo è solo un ricordo.