Pani ca meusa

Foto di Enzo Ferreri

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Quel panino morbido ricoperto di sesamo da cui fuoriescono straccetti di carne, fili sottili di caciocavallo e gocciolante di bave di strutto bollente, è la follia gastronomica dei palermitani.

E’’ da mangiare rigorosamente con le mani giacché i rebbi di una forchetta non saprebbero cosa infilzare esattamente in quella grande confusione che vi regna fra polmone, milza, cartilaggini, ricotta e caciocavallo.

E’’ un piatto perfetto, collaudato da oltre mille anni di vita quotidiana, cioè da quando gli ebrei palermitani lo produssero ad uso esclusivo dei cristiani.

Con la caduta dell’’Impero Romano e l’’abbandono delle campagne l’’uso dell’’olio d’’oliva era scomparso perché sostituito da grassi animali che a buon mercato si potevano reperire nelle città. Con l’arrivo dei saraceni nell’ 827, e poco più tardi degli ebrei sefarditi (provenienti dalla Spagna), si pose la necessità dell’’ olio d’oliva dato che nello halal musulmano e nello Kasher ebraico era vietato l’’uso dei grassi di origine animale.

Arrivarono anche in Sicilia norme alimentari assai severe: niente maiale, niente crostacei e molluschi, e il pesce doveva avere pinne e squame. Le carni, invece, dovevano essere di animali sanissimi con zoccolo bipartito come bue, capra, pecora, bufalo ecc.

Era vietato l’’accostamento di carne cotta con il latte e i suoi derivati, come ricotta e formaggi.

Il bestiame veniva ritualmente abbattuto nei macelli ebraici e musulmani alla presenza di Imam e rabbini e gli uccisori non potevano essere pagati per la loro atroce attività. Il soldo sarebbe stato una sorta di “pretio sanguinis” non previsto nei sacri testi. In cambio ricevevano le interiora degli animali tranne il preziosissimo fegato. Si pose, dunque, il problema di trasformare in denaro sonante quelle frattaglie.

Non sappiamo chi ebbe l’’idea di creare un piatto per i cristiani che mettevano insieme la carne ed i suoi prodotti (ricotta e formaggio) e che usavano esclusivamente strutto e grassi animali. Insomma quella idea di mettere in mezzo ad un panino tutto ciò che era proibito a Musulmani e Ebrei ebbe un successo che dura fino ai nostri giorni.

E così milza, polmone e cartilaggini tratte dalla gola dei vaccini vennero adagiati nel mezzo di un panino rotondo, morbido, caldo, ricoperto di sesamo in compagnia di ricotta e caciocavallo fresco tagliato come stuzzicadenti.

E poi bisogna non perdersi il guastiddaru (così si chiama l’'”artista”che prepara il panino) che con i suoi  movimenti da direttore d’’orchestra, compone una sinfonia giacché quei miserabili ingredienti diventano, sotto le sue abili mani, singoli strumenti: tutti insieme vi procureranno quella gioia del palato che è la somma dei singoli apporti organolettici.

In modo discreto vi sarà chiesto se il panino lo desiderate “schietto o maritatu”, che tradotto  significa: single o sposato? Lo so anche la traduzione non vi aiuta. Insomma la scelta è tra un panino con ( maritato) formaggio o senza (single) formaggio.

Per secoli quella guastedda (dall’’antico francese normanno gastel), fu venduto da ambulanti forniti di una sorta di paniere di latta corredato di un fornellino a carbone su cui poggiava, oggi è possibile mangiarla in diverse focaccerie palermitane. Celebri sono: l‘antica focacceria di San Francesco di via Alessandro Paternostro 58,  “Nino U ballerino” di Corso Camillo Finocchiaro Aprile 76/78, Porta Carbone via Cala, 62 e Franco “u Vastiddaru” di Corso Vittorio Emanuele 102.